Recensioni. “Agency Threats” and the Rule of Law: An Offer You Can’t Refuse

Fino ad oggi gli studiosi hanno variamente documentato ed esaminato gli strumenti di regolazione informale di cui si servono sempre di più le agenzie federali. Nonostante tutto, poco considerato è ancora il valore di “minaccia” nei confronti degli operatori privati che assume la regolazione informale adottata dalle autorità pubbliche.

Nel 2011 il professor Tim Wu ha pubblicato un articolo dal titolo “Agency threats” sul Duke Law Journal, nel quale ha sostenuto che la regolazione informale, in determinate circostanze, rappresentando uno strumento di minaccia e di persuasione nei confronti dei privati, avrebbe effetti regolatori più incisivi del rulemaking formale o dell’adjudication.

L’articolo “Agency Threats” and the Rule of Law: An Offer You Can’t Refuse si propone di dimostrare che la tesi di Wu non solo è errata, ma è anche pericolosa.

Che cosa sono le Agency threats e il loro uso

Occorre innanzitutto spiegare che cosa si intenda con la locuzione Agency threats. Per Wu, infatti, sono tali le disposizioni che sono simili, ma non identiche, alle norme legislative di interpretazione. Egli include espressamente nella categoria delle Agency threats: le lettere di avvertimento, i discorsi pubblici, le interpretazioni ufficiali e gli incontri privati con i soggetti regolati.

Affinché tali strumenti rappresentino una minaccia è essenziale, secondo Wu, che l’azione della pubblica amministrazione non sia diretta esclusivamente a manifestare un’opinione, ma si traduca anche in un comportamento concreto da parte dell’agenzia. Questa precisazione consente di espungere dalla categoria delle “minacce” i report e altri materiali destinati solamente allo studio.

La regolazione informale, pertanto, risulta “minacciosa” solo quando costringe i soggetti regolati ad adottare un comportamento specifico.

Wu distingue anche tra minacce private e pubbliche che possono essere rivolte dalla agenzie ai privati. Rientrano in quelle private le lettere e gli incontri faccia a faccia tra i rappresentanti delle agenzie e i privati. Rientrano in quelle pubbliche, al contrario, i discorsi ufficiali e le dichiarazioni pubbliche che minacciano l’adozione di strumenti regolatori di enforcement.

Il punto centrale del saggio di Wu consiste nel rispondere a una domanda: se le minacce informali non hanno valore esecutorio, esistono delle circostanze in cui è preferibile che le agenzie si avvalgano di tali minacce anziché di regole formalmente vincolanti?

Secondo Wu, tali circostanze esistono: metodi di regolazione informali dovrebbero infatti sempre essere preferiti nella regolazione dei settori caratterizzati da un maggior grado di innovazione e di sviluppo tecnologico, in cui l’emanazione di atti giuridicamente vincolanti rischia di tradursi in oneri eccessivi per i privati e per le agenzie, che non potrebbero cambiare tanto facilmente la regolamentazione per adeguarla ai cambiamenti del settore. Al contrario, nei settori caratterizzati da scarsa innovazione, sarebbe più utile dotarsi di una regolazione formale.

I problemi con le Agency threats

La tesi di Wu presenta alcuni punti deboli. In primo luogo, essa prende le mosse da un falso dilemma. Di fronte a un settore in rapida evoluzione tecnologica, il problema per un’agenzia non è se regolare formalmente o informalmente, ma è se regolare o non regolare.

In secondo luogo, una volta che l’agenzia abbia deciso di regolare, per Wu si pone la questione di capire su quali evidenze e su quali fatti l’agenzia debba basare la propria regolazione. Poiché nei settori ad alta innovazione i fatti cambiano rapidamente, l’agenzia potrebbe trovarsi di fronte a una quantità di evidenze e di dati insufficiente per regolare formalmente. In realtà, un’agenzia potrebbe avvalersi di ricerche, di workshop, di indagini: quindi gli strumenti per conoscere e poi regolare con cognizione di causa esistono.

Infine, non è vero che il rulemaking formale sia troppo oneroso in termini di tempo: se si vuole cambiare una regolamentazione, ci si può avvalere anche di procedure regolatorie speciali e di emergenza previste dall’Administrative Procedure Act (APA).

Vanno poi analizzati, in particolare, altri tre problemi che scaturiscono dalle Agency threats.

Il primo consiste nel fatto che non è sempre vero che la regolazione informale imponga meno oneri e costi ai soggetti regolati delle regolamentazioni formali. La principale giustificazione di Wu al ricorso alle Agency threats è rappresentata dal contesto industriale incerto in cui le regole vincolanti finirebbero per inserirsi: Wu non prende in considerazione, tuttavia, che le “minacce” informali possano cagionare ulteriore incertezza e confusione per i soggetti regolati.

Il secondo problema è rappresentato dal fatto che, secondo Wu, le “minacce” regolatorie costituirebbero un input allo sviluppo di un settore industriale, ma questo non può essere considerato un vero scopo dell’azione di regolazione.

Infine, la regolazione informale attribuisce alle agenzie dei poteri che non sono limitati da norme e procedure formali. In questo caso, la Rule of Law sarebbe sostituita dalla Rule of Men, ossia dall’arbitrio dei soggetti che operano all’interno delle agenzie.

Un caso di Agency threats

L’articolo esamina poi un caso concreto di adozione di Agency threats per misurare i costi che essa ha generato.

Nel 2009 Craig Zucker e il suo amico Jake Bronstein, prendendo spunto da un video caricato su Youtube, nel quale alcuni studiosi riuscivano a disegnare delle forme geometriche utilizzando dei rari magneti, ebbero l’idea di vendere quei magneti come gioco da tavolo. Con un investimento di 2 mila dollari, fondarono la società Maxfield & Oberton e cominciarono a importare magneti dalla Cina. L’idea ebbe un successo straordinario, le vendite furono altissime e la rivista Rolling Stones assegnò al giocattolo (battezzato Buckyballs) il premio di “gioco dell’anno”.

Ben presto, tuttavia, ci si accorse che i bambini che giocavano con tali magneti finivano per manifestare problemi intestinali. Ciò attirò l’attenzione della Consumer Product Safety Commission (CPSC).

Di fronte alle proteste di consumatori, Craig e Jake spiegarono che il loro prodotto non voleva essere un gioco per bambini. Secondo la legge federale dell’epoca, un gioco era da considerare per bambini qualora fosse stato utilizzato dai minori di 13 anni. Di conseguenza, Craig e Jake attribuirono al loro gioco l’etichetta “13+”. Tuttavia, nel giro di pochi mesi, la CSPC ridefinì il concetto di gioco per bambino: è tale il gioco che può essere usato dai minori di 14 anni. Il gioco di Craig e Jake, perciò, presentava un’etichetta fuori norma.

Nel marzo 2010, la CSPC fece notare il problema alla Maxfield & Oberton, la quale mise un avviso su tutti i suoi giocattoli magnetici che recitava così: “tenere fuori dalla portata dei bambini”. Gli sforzi della società per evitare che i giocattoli finissero nelle mani dei bambini proseguirono con avvisi, campagne pubblicitarie, avvertimenti nei libretti delle istruzioni, ecc.

Non soddisfatta, la CSPC nel 2012 chiese alla Maxfield & Oberton, con una lettera, dunque con una tipica “minaccia” informale”, di cessare l’importazione dei magneti, di porre fine del tutto alla vendita del gioco e di richiamare le unità in circolazione. La CSPC lanciò un ultimatum: entro due settimane, la società avrebbe potuto raggiungere un accordo con la CSPC oppure quest’ultima avrebbe avviato un contenzioso giudiziario.

La società non decise subito di raggiungere un accordo, ma la CSPC, ancor prima della scadenza delle due settimane, si era già messa in contatto con le grandi catene di distribuzione vietando loro la commercializzazione del gioco. La società, allora, si piegò alla volontà della CSPC e finì per chiudere i battenti per fallimento nel 2012, sebbene non sia mai stata accertata la pericolosità del giocattolo e nonostante che l’azione regolatoria sia stata del tutto informale, cioè priva delle garanzie del contraddittorio. A nulla valse la campagna pubblica in difesa della società sostenuta, tra gli altri, dal Washington Post.

L’analisi approfondita delle modalità di attuazione delle Agency threats, nonché l’esame del caso relativo alla società Maxfield & Oberton, consente di sostenere la necessità di limitare il ricorso alle “minacce regolatorie”, le quali offrono poche garanzie per i soggetti regolati. Questi ultimi, infatti, di fronte alle minacce della regolazione informale non possono fare altro che adeguarsi alla volontà regolatoria delle agenzie. Le Agency threats, in definitiva, costituiscono delle “offerte che non si possono rifiutare”.

In questa prospettiva, secondo l’Autore, gli studi di Wu possono essere utili, perché forniscono delle chiavi di lettura del fenomeno, ma la proposta di favorire l’uso di Agency threats da parte delle agenzie deve essere respinta, perché può generare disfunzioni maggiori di quelle alle quali vuole porre rimedio.

(Giorgio Mocavini)

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