L’approccio comportamentale, il BIT e gli sviluppi in Italia

di Vitalba Azzollini e Guglielmo Briscese*


Gli studi sull’incidenza dei fattori irrazionali sulle scelte umane – per i quali quest’anno è stato conferito il premio Nobel a Thaler – assumono una valenza rilevante per chi si occupi di politiche pubbliche. Infatti, la c.d. behavioral economics, combinata all’approccio sperimentale, può fornire indicazioni circa i limiti cognitivi degli individui e coadiuvare il decisore nella valutazione degli effetti delle diverse opzioni operative. E’ utile esaminare i diversi profili per i quali behavioral approach e verifiche sul campo possono favorire la definizione di interventi pubblici più efficaci.

Le evidenze sperimentali fornite dalla behavioural economics consentono, innanzitutto, di comprendere quale strategia risulti più vantaggiosa nel perseguimento di determinati obiettivi. Particolari meccanismi psicologici, infatti, possono rivelarsi indicativi per il successo di strumenti basati su meccanismi di incentivazione – ad esempio il nudge – alternativi al command and control della regolamentazione tradizionale. Il ricorso a questi strumenti permette, da un lato, di non alimentare l’ipertrofia normativa; dall’altro, di evitare una serie di costi (di applicazione, adeguamento, controllo ecc.) connessi alla regolamentazione stessa.

In secondo luogo, l’approccio comportamentale e sperimentale alle politiche pubbliche riduce l’asimmetria informativa tra policy maker e cittadini: facendo emergere le preferenze e le condotte reali di questi ultimi, attenua i margini di errore del decisore e lo pone in condizione di mettere a punto le azioni più idonee. In particolare, la behavioural economics fa sì che il policy maker possa tenere conto di elementi dei comportamenti umani potenzialmente idonei, se non adeguatamente considerati, a determinare il fallimento del suo intervento; per altro verso, la sperimentazione cognitiva può indicare più precisamente le cause per cui meccanismi di deterrenza o di persuasione non hanno funzionato. Tale conoscenza dei fattori che influenzano le condotte umane permette non solo di elaborare politiche più efficaci ed efficienti, ma consente agli amministratori pubblici, monitorando gli effetti di queste ultime in relazione ai comportamenti dei loro destinatari, di operarne continuamente i necessari miglioramenti e di evitare sprechi di risorse in azioni non adeguate.

In base a quanto sopra esposto, si comprende come non sia un caso che governi di tutto il mondo abbiano da tempo creato proprie nudge unit, composte da esperti di economia comportamentale e sperimentale. Il comitato del premio Nobel ha stimato che almeno 135 Paesi (su 196 in tutto il mondo) si avvalgono di squadre di governo di questo tipo o collaborano con consulenti e accademici per realizzare iniziative analoghe. La prima nudge unit è sorta all’interno del governo inglese nel 2010, grazie alla collaborazione di Thaler. Si tratta del Behavioural Insights Team (BIT), diventata poi società di consulenza indipendente con uffici in tutto il mondo. Solo tra il 2016 e il 2017, il BIT ha completato 163 esperimenti per il miglioramento di politiche pubbliche in 25 Paesi diversi.

La metodologia del BIT, così come di altre unità simili, consiste innanzitutto nell’identificazione di quali, tra le politiche pubbliche nell’agenda dei decisori, abbiano effettivamente l’obiettivo di migliorare il comportamento dei cittadini. In una seconda fase, gli individui interessati dalla politica considerata sono sottoposti a un periodo di osservazione, mediante l’utilizzo di ricerche etnografiche e l’esame dettagliato di tutti i dati disponibili. A seguito di questa analisi, qualitativa e quantitativa, vengono quindi formulate ipotesi circa gli aspetti del comportamento umano che si reputa possano giocare un ruolo nel campo della policy. Il procedimento esposto permette la formulazione di soluzioni a costo zero (o quasi), che si ritiene possano produrre miglioramenti o cambiamenti in programmi o politiche. Le soluzioni individuate sono, quindi, testate sul campo, spesso utilizzando quello che è considerato il gold standard delle metodologie di valutazione, ovvero i controlli randomizzati. La tecnica del controllo randomizzato permette, in poco tempo, di valutare quali soluzioni abbiano funzionato e in quale misura, quali invece abbiano fallito, rispetto al business as usual, vale a dire rispetto a ciò che accade normalmente.

In Italia, l’applicazione di politiche evidence based può trovare supporto nella legge: gli atti di regolamentazione del governo e di altre autorità devono essere preceduti da un’analisi ex ante, che valuti le diverse opzioni d’intervento disponibili, ne soppesi costi e benefici e infine motivi la scelta in modo trasparente (oltre che da una verifica ex post, tesa a vagliare se l’intervento abbia prodotto gli esiti attesi o necessiti di essere corretto). Se tale analisi, oggi carente, si avvalesse di un approccio comportamentale e di evidenze empiriche – come da ultimo auspicato anche dal Consiglio di Stato – le politiche pubbliche nazionali potrebbero sortire esiti migliori.

Vitalba Azzollini, giurista, lavora presso un’Autorità di vigilanza. Scrive (a titolo personale) in tema di diritto su riviste on line (tra le altre, La Voce), blog (Phastidio e Istituto Bruno Leoni) e giornali. Autrice di paper per l’Istituto Bruno Leoni.

Guglielmo Briscese è senior advisor al Behavioral Insight Team e ricercatore alla University of Sydney

*Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente degli autori e non coinvolgono gli enti per cui lavorano.