Nonostante le misure specifiche adottate negli ultimi anni, l’Italia continua a occupare posizioni non lusinghiere nelle classifiche internazionali che valutano i divari di genere. Uno dei motivi è il mancato riconoscimento del principio di gender mainstreaming e, conseguentemente, l’assenza nell’ordinamento nazionale degli strumenti positivi mediante i quali, in altri Paesi, esso viene implementato. In particolare, gender impact assessment, gender budgeting e statistiche di genere gioverebbero a ridurre le disparità esistenti.
La parità di genere non è una dichiarazione “di principio”.
Le posizioni non lusinghiere dell’Italia nelle classifiche che valutano i divari di genere non sembrano indurre il policy maker nazionale a verificare i motivi per cui, nonostante le misure finora varate, una gender parity effettiva sia ancora lontana. A questo riguardo, una spiegazione potrebbe essere rinvenuta nelle conclusioni della Quarta conferenza mondiale sulla donna (Pechino, 1995), secondo cui le “azioni positive” in favore del genere femminile non sono di per sé sufficienti al fine di colmare le disparità esistenti. La Piattaforma globale aveva, infatti, sancito l’importanza di adottare, in aggiunta a politiche specificamente mirate all’equità, anche il principio di integrazione orizzontale delle pari opportunità (c.d. gender mainstreaming): vale a dire, la prospettiva di genere deve improntare “ogni azione progettata, in tutti i campi e a tutti i livelli, compresa l’attività legislativa, politica e di programmazione”, in modo da “assicurare che, prima di prendere decisioni, sia effettuata un’analisi degli effetti che essi hanno sulle donne e gli uomini rispettivamente”. Questo principio è stato assunto come impegno formale da parte della Commissione UE (COM(96) 67) la quale, in conformità alla Piattaforma di Pechino, ha affermato che la promozione dell’eguaglianza non può essere limitata a specifici provvedimenti, ma deve avere un respiro più ampio: va, quindi, svolta sistematicamente un’analisi di impatto di genere (gender impact assessment) su tutte le iniziative di regolazione, generiche o settoriali, “fin dal momento della loro concezione e in maniera attiva e visibile” (gender perspective), per determinarne l’incidenza sulla gender equality. Per realizzare tale analisi, occorre “comparare e valutare, sulla base di criteri di significatività rispetto al sesso, la situazione attuale e le tendenze prevedibili a seguito dell’introduzione della politica proposta” (Guida all’analisi di impatto di genere, Commissione UE, 1997): ciò al fine di garantire “trasparenza e affidabilità” dell’intervento pubblico in tema di diseguaglianze (COM(2006) 92), nonché di “ampliare la base di conoscenze sulla parità di genere” (COM(2010) 491). L’importanza di un twin track approach nella promozione della parità di genere – ossia “l’inclusione delle pari opportunità in tutte le politiche e le attività, insieme a misure specifiche per un’azione positiva a favore delle donne” – è stata evidenziata anche dal Parlamento Europeo (A4-0072/99). Peraltro, questo approccio a doppio binario viene in concreto adottato da diversi Paesi (tra gli altri, Spagna, Svezia, Austria), i quali hanno implementato il principio di gender mainstreaming, oltre che mediante il gender impact assessment, altresì con il gender budgeting, ossia la stima degli effetti delle politiche economiche e di bilancio su uomini e donne (anche oggetto di una risoluzione del Parlamento Europeo), e con le “statistiche di genere”, cioè rilevazioni e analisi fondate su dati disaggregati per sesso nelle diverse aree di interesse pubblico.
A differenza di Paesi maggiormente women friendly, in Italia il principio di gender mainstreaming sembra non trovare riconoscimento, con la conseguenza che il decision maker nazionale – già normalmente poco propenso a svolgere adeguate analisi di impatto per operare le scelte più efficaci – non esegue alcun gender impact assessment, né utilizza gli altri strumenti sopra menzionati. Viene così a mancare una delle due componenti di quel twin track approach indicato come essenziale nelle citate sedi internazionali. Eppure, per realizzare il principio di integrazione orizzontale, si sarebbe potuto dare seguito a un disegno di legge (2013) che, sulla base degli impegni di Pechino, proponeva l’introduzione dell’obbligo di compiere stime di impatto normativo di genere, nonché di produrre dati statistici articolati per sesso, indispensabili al fine di misurare gli effetti differenziali di tutte le azioni pubbliche, anche di quelle apparentemente neutre. Per implementare il criterio di gender mainstreaming, si sarebbe potuta altresì attuare la delega (legge n. 39/2011) avente ad oggetto “l’introduzione in via sperimentale di un bilancio di genere, per la valutazione del diverso impatto della politica di bilancio sulle donne e sugli uomini, in termini di denaro, servizi, tempo e lavoro non retribuito”. Attualmente, si potrebbe almeno intervenire sulla proposta di regolamento in materia di analisi e verifica di impatto della regolazione, aggiungendo il profilo di genere a quelli in relazione a cui è previsto che alcuni rule-maker svolgano le necessarie valutazioni.
Sono, dunque, chiari i motivi per cui l’Italia continua a restare distante da Paesi che da tempo hanno attribuito al principio di gender mainstreaming un “ruolo nella definizione, realizzazione e valutazione di tutte le scelte di politica economica e sociale”: è necessario prenderne atto, perché la parità di genere non resti solo una dichiarazione “di principio”.
(Vitalba Azzollini)
* Le opinioni espresse in questo articolo sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.
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Vitalba Azzollini, laureata in giurisprudenza alla LUISS, lavora presso la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa (CONSOB). E’ autrice di paper e articoli in materia giuridica.
2 thoughts on “Italia, a che punto siamo con l’analisi di impatto di genere”